Judo e Aikido

 

 
  • Mentre il judo, come d'altronde molte altre arti marziali orientali, ha trovato in Occidente quei geni che sono valsi a modificarne la struttura intima, imbastardendolo tanto da trasformarlo in una semplice forma di lotta, permane, in taluni testi, un accenno alla sua finalità secondo quanto ha lasciato scritto il suo fondatore, il professor Jigoro Kano che. tirando le conclusioni sul judo kodokan, affermava che esso aveva, come massime spirituali: Ji ta kyo ei (prosperità e mutuo benessere) e Se'ryoku - zeu'yo (il migliore impiego dell'energia). Analizzando questi principi, non possiamo evitare l'accostamento con l'Aikido di Morihei Ueshiba. O-Sensei, attraverso la sua “via”  ha voluto anche egli lasciare ai posteri un messaggio spirituale che sublimasse gli individui portandoli a vivere in reciproca armonia, inseriti perfettamente nel contesto universale. Non è questo un incitamento alla prosperità ed al mutuo benessere? Non vogliamo ora dilungarci ulteriormente sul pensiero dell'uno o dell'altro di codesti grandi maestri, ma siamo convinti che le conclusioni ci porterebbero sempre più ad affermare che la meta per entrambi era la medesima. Nati a poco più di 20 anni di distanza l'uno dall'altro (Kano nel 1860. Ueshiba nel 1883). i due maestri avevano percorso la loro strada partendo dal ju jitsu ed avevano creato un « via » che dal budo affinandosi sempre più, era sfociata in una vera e propria disciplina spirituale. Due strade parallele, che attraverso la fatica fisica ed il travaglio interiore venivano tracciate come un solco indelebile per le generazioni a seguire. Che un punto di contatto ci fosse e che almeno allora, risultasse palese all'osservatore, è dimostrato dal fatto che Kano, assistendo ad un'esibizione di Aikido offerta da Ueshiba, ne rimanesse affascinato tanto da dichiarare che il suo ideale ora lo vedeva realizzato. Ciò può destare meraviglia oggigiorno in chi, esperto di judo agonistico, segue una manifestazione di aikido. Com'è possibile infatti che una lotta in cui prevalere sull'avversario è condizione essenziale, possa risultare simile ad una pratica in cui la competizione non esiste? Ma questa è l'apparenza. La realtà, come sempre, è un'altra e la scorge solo chi ha occhi per vederla. L'aikido è la più grande forma di competizione, la più difficile, la più estenuante. In aikido si lotta sistematicamente e costantemente contro un nemico dalle mille risorse, dall'aspetto mutevole, proteiforme: in aikido si lotta contro se stessi, per migliorarsi in quel continuo progresso illimitato verso un equilibrio universale. Quale più intensa competizione?« Prosperità e mutuo benessere appartengono alla pratica ideale del judo kodokan, allo stadio supremo, raggiunto solo da chi, avendo completamente assimilato la tecnica e lo spirito del combattimento, supera qualsiasi nozione di vittoria e di sconfitta ». Sono queste parole di Jigoro Kano, ma potremmo immaginarle dette da Ueshiba, sostituendo solo » judo kodokan » con il termine « aikido ». Anche nel campo della pura tecnica dobbiamo riconoscere che i due maestri giapponesi hanno in comune qualcosa: Kano, infatti, amava particolarmente uki goshi, la famosa ancata fluttuante, dove Uke e Tori si incontrano a metà strada, si uniscono strettamente, fondendo i propri corpi e di conseguenza le proprie energie vitali, per un attimo, prima di separarsi con la proiezione finale. Per gli esperti d'aikido questa tecnica è la dimostrazione di un magnifico tenkan ed offre l'idea dell'unione di forze come poche altre. Se Kano la preferiva tra tutte e se, secondo le sue intenzioni, doveva servire come base per ogni altro tipo di koshiwaza, senza dubbio vi aveva ravvisato quegli estremi che sintetizzavano tutte le caratteristiche della sua scuola. Ed è sintomatico come oggigiorno uki goshi sia quasi scomparso dalle tecniche che vediamo impiegate durante le gare di judo. AI suo posto c'è un intero kyo, aggiunto ai cinque codificati da Kano. Un kyo comprensivo di morote gari, kani basami, ikkomi gae-shi. tutti « colpi » che ci riportano alla lotta lìbera. Il judo è diventato occidentale, è passato per i setacci del sambo russo, della lotta greco-romana e di stile libero, ha perduto la sua credibilità nell'assioma che il debole, purché esperto, possa vincere sul forte. Attraverso la fitta rete di questi setacci ha lasciato la sua parte animica, quella essenziale, mentre è riuscita a passare e a consolidarsi la parte esclusivamente tecnica, quella basata sul « modo » di esecuzione, sull'impiego della forza muscolare, esaurita la quale, nel breve giro di pochi minuti, tutto si sgonfia, tutto crolla e degli insegnamenti del Maestro rimane solo una pallida memoria. Gli eroi di un tempo non sì conoscono più. Non si capisce bene perché questo tipo di lotta giapponese debba voler significare « vìa della cedevolezza » (dell'adattabilità, per i puristi), quando chi cede, anche solo un attimo, viene sopraffatto da un avversario che è ridotto ad una macchina di muscoli e nervi. Vincere è importante e solo questo conta. Che il vincitore abbia escogitato tutti i trucchi, si sia valso di sotterfugi, ne abbia realmente ed onestamente guadagnato la vittoria, non è importante. Fa fede il risultato. Le federazioni vogliono medaglie, riconoscimenti ufficiali. Gli atleti vogliono gloria, amano imporsi e dettare legge sui tatami. Non importa se come uomini vanno soggetti a crisi di nervi, se non sanno sopportare stoicamente una sconfitta, se il dolore fisico li prostra. La battaglia che essi conducono è contro gli altri uomini non contro se stessi e le proprie debolezze. Gli eroi sono alti e forti, muscolosi, violenti e caparbi. Gli eroi hanno nomi come Gee-sink, Ruska, gente che supera i due metri di altezza, che stritola gli avversari, che sa sopraffare sulla materassina quegli stessi maestri orientali sotto la cui guida ha appreso le tecniche. Tutti sanno che a certi livelli, le forze sono più o meno pari, anche perché si combatte a categorie di peso e negli assoluti entrano solo i campioni più dotati. Di giganti ce ne sono pochi e quei pochi non possono fare testo. Il Giappone oggi si è ripreso, come possiamo vedere chiaramente. La preparazione dei suoi atleti è quanto di più perfetto possa esistere nel campo del judo. Ma dove è finita la preparazione « interiore » di questi agonisti? In Oriente sotto molti aspetti c'è ancora. In tutte le arti marziali le tecniche respiratorie e di concentrazione mentale sono incluse' nei programmi preparatori. Nelle sfere più evolute si parla anche di vuoto mentale, il non plus ultra delle raffinatezze, che consente all'uomo di percepire con anticipo l'attacco dell'avversario e ci riporta alla leggendaria storia degli invincibili samurai. Il potere della mente è riconosciuto anche da noi occidentali. La volontà ben indirizzata può fare miracoli. L'autocontrollo è alla base di ogni grande vittoria. Ma il raggiungimento di queste mete è un'utopia. Non siamo molto riflessivi nel campo dello sport: amiamo esercitare il nostro corpo nelle palestre agonistiche, curandone la struttura esterna nei minimi particolari, rafforzando le parti muscolari più carenti, risvegliando i nostri riflessi in prove di velocità e contrattacchi, ma di quello che concerne lo sviluppo interiore non ci curiamo. Gli organi interni si rafforzano a mano a mano che il corpo viene esercitato ed i muscoli crescono e si elasticizzano. Questo deve bastare. La respirazione può concedersi tutt'al più una iperventilazione. Tutto viene affrontato con la forza e la tendenza al risultato immediato. Così il judo si trasforma in pura lotta, il karaté in Kick Boxing  full contact, il kendo in scherma violenta, condita con urli spesso senza senso e via dicendo. Resta l'aikido. Qui non vi sono gare, ma dimostrazioni. Dimostrazioni di perfetto equilibrio fisico, di tempismo eccezionale, di scioltezza muscolare, ma soprattutto di UNIONE. Ed è proprio questa unione che costringe a superare la barriera materiale, portando le cose in una dimensione diversa da quella abituale. In palestra si lavora duramente, ma bisogna anche pensare. La lotta inizia fin dalle prime lezioni ed è la più dura: è la lotta per il dominio su noi stessi, sulle nostre reazioni istintive, contro le distrazioni, a favore di una concentrazione su quel magico tanden di cui così poco ci eravamo curati. Vincere l'impulso costante di guardare le mani o le gambe dell'Uke in azione, concentrarsi sul proprio centro di forze, adattare la respirazione alle varie fasi dell'azione. Tutto ciò richiede maturazione di anni. E non è solo tipico dell 'aikido. Lo era da sempre nel judo. Quanti praticanti si sentono ripetere dai maestri di non guardare i piedi dell'avversario nella convinzione di evitare così un de ashi barai e di sforzarsi invece di «sentire» l'uomo attraverso il contatto col suo keikogi. Ma nella maggior parte dei casi questi rimangono consigli inutili: « sentire » l'avversario presuppone oltre alla pratica sul tatami una giusta concentrazione, un controllo sulle reazioni istintive e sulle paure, una particolare disposizione mentale che nel judo è andata persa mentre in aikido riusciamo ancora ad afferrare il vero senso del « do », di quella via lunga e faticosa che porta l'uomo all'incontro più sbalorditivo: quello con se stesso. Più avanti c'è l'universo di cui facciamo ancora parte, anche se ce lo siamo dimenticato dormendo i secoli di civiltà. Il cosiddetto progresso ha confinato l'idea di universalità oltre la barriera di ponderosi tomi di filosofia ed ora il cordone ombelicale che ci consentiva di vivere in armonia con la natura si è assottigliato un po' troppo. Il rientro nel contesto cosmico è difficile ed ostico. Esso non è comunque impossibile, poiché ogni evoluzione riconduce, prima o poi, al punto di partenza. Ma per avviarci su questo cammino dobbiamo escludere le smanie combattive: il combattimento è contrasto ed i contrasti portano alla scissione. E la separazione è esattamente il contrario dell'unione che cerchiamo. Anche tra Yin e Yang la lotta produce una frattura, un allontanamento, uno squilibrio. E qui si tratta di trovare l'opposto, ossia l'equilibrio. Yìn e Yang non sono nemici. L'antitesi è sinonimo di equilibrio, di stabilità. Se consideriamo attentamente la questione, pure male e bene si compenetrano e sono necessari l'uno alla sopravvivenza dell'altro. Non può esistere bene senza il male, né esisterà male assoluto finché anche l'idea del bene potrà essere manifestata. Solo vedendo le cose sotto questa luce potremo affrontare la vita serenamente, lasciandoci trasportare verso quella meta che fu già nostra e che in qualche modo perdemmo. Ma ricordiamo sempre che lo Zen non ammette passività: chi sta in meditazione non deve rischiare di scivolare nel sonno, deve mantenere bensì una mente ben sveglia, vigile ad ogni segnale. E solo allora il segnale verrà. Dunque il « do » va percorso serenamente, ma sempre attivamente, con volontà e fiducia, non con smania né con ira, però col « ju » ovvero con la facoltà d'adattamento. Ciò significa che ogni ostacolo che troviamo sul cammino va rimosso in base alla sua struttura ed al modo nel quale si presenta. Non posso conoscere la forza di chi mi si oppone, ma posso sentirne la direzione e agevolandolo sulla strada che si è scelta, allontanarlo dalla mia. Questo è aikido, ma anche judo. Se ti spingono, facilita l'azione tirando, se ti tirano, spingi: è la massima che riassume il judo. Incanalare le forze ostili nelle direzioni a cui tendono, seguirle per un po', quindi lasciarle procedere da sole. E' judo, il vero judo, ma anche il vero aikido. In quest'ultima disciplina le cose stanno ancora al loro posto. Esse ci indicano la via giusta, incontaminata. Chi la segue non deve però lasciarsi prendere troppo dal fascino dell'Oriente. La nostra è una etnia diversa, che sente diversamente le cose ed anche se la meta dell'uomo non può essere che la stessa per tutti, al di là della barriera etnica, le vie per raggiungerla sono molteplici. Gli stessi orientali ne seguono varie, vuoi attraverso il Budo, vuoi attraverso religioni e filosofie. La moda di ricorrere allo Yoga o allo Zen per ottenere risultati sul piano animico è, come tutte le mode, una grande mascherata. Ognuno si scelga la via da seguire in base alle proprie sensibilità e tendenze, ma si ricordi che questa via può essere anche di impronta puramente occidentale. Tutte le religioni e filosofie hanno punti in comune, pertanto non serve esaltarsi di fronte all'esotico e disprezzare le soluzioni semplici di casa propria. Ciò che conta è la fermezza e la volontà. Ciò che conta è superare se stessi, impegnarsi con serietà e costanza. La meditazione, che è la ginnastica dello spirito, non è nata solo in Oriente tra yogi e simili, ma è stata il banco di scuola di tutti i nostri migliori santi e filosofi, di coloro che hanno lasciato parole e scritti su cui pensare e trarre sagge conclusioni. La meditazione è utile, ma porta via molto tempo. Tra le popolazioni orientali è altrettanto rara come tra gli occidentali e non dobbiamo pensare che regni accattone che con aria estatica impesta con la sua presenza antigienica le strade di Bombay. Calcutta o Katmandu sia un uomo superiore, come non è credibile chi, dopo un paio d'anni di viaggi attraverso l'Oriente, torna a casa e assume atteggiamenti monacali per sfuggire una realtà che le forze non gli bastano a sostenere. L'uomo equilibrato e volitivo può attingere a qualunque fonte poiché l'acqua che berrà, a contatto col suo corpo, potrà solo migliorarlo. Dunque, rispettiamo le vie che l'Oriente ci offre, ma traiamo da esse solo quei vantaggi che effettivamente possono giovarci, senza paludarci con abiti che farebbero di noi i classici spaventapasseri ed evitiamo di esprimerci attraverso frasi che mal ci si adattano e che agli occhi dei maestri veri suonano come una nota, infamante verso chi ha gettato a suo tempo un ponte che valesse ad unire l'uomo col creato. Quando decidiamo di dedicare parte del nostro tempo ad un'arte marziale orientale, vediamo di farlo con oculatezza ed una carta serietà, se vogliamo veramente trarre beneficio da essa e capirne lo spirito. Questo va fatto proprio perché l'ideatore della disciplina che studiamo non è stato un uomo della nostra etnia ed è partito da basi diverse da quelle da cui sarebbe partito un occidentale. Pertanto cerchiamo di non alterare il vero spirito che anima la « via », né di dimenticare che esso esiste, altrimenti impoveriamo e denigriamo la nostra attività portandola a livelli modesti dove morirà cristallizzata, senza aver dato frutti. Il judo, oggigiorno, corre questo rischio e poco ha più a che vedere con quello del suo ideatore. Ma sappiamo che nel l'aikido  rivive e si mantiene ancora integra l'essenza di queste « vie ». Perciò ripercorriamole dall'inizio e con lo spirito che ci perviene dall'aikido, affrontiamo ancora una volta daccapo il judo, cingendoci di bianco il keikogi.Così conosceremo la forza dell'umiltà e faremo onore alla memoria di Jigoro Kano e Moriheì Ueshiba