Il Dojo

 come luogo di “segregazione” per raggiungere l’illuminazione

 

del Dott. Matteo Luteriani 

 

 

  • Proviamo a guardare per una volta le cose attraverso una lente diversa da quella che normalmente e per consuetudine utilizziamo, senza tanto soffermarci sul significato profondo del luogo dove andiamo a praticare: il dojo. Le traduzioni che si possono dare del termine giapponese sono molteplici e in ogni caso, dalla più fantasiosa alla più letterale, vogliono significare “il luogo dove si può raggiungere l’illuminazione”. Ma al di là del significato metafisico o della traduzione, vorrei porre l’attenzione proprio sul luogo e sul suo significato.
  • Abitiamo spesso in case che non abbiamo potuto definire architettonicamente, con parametri stabiliti da costruttori, ingegneri, geometri i quali, non conoscendo nulla della disposizione secondo le regole di una armonia architettonica tradizionale che tenga in conto delle energie che si possono sviluppare, si attengono a rigide norme commerciali. Per le palestre poi cadiamo ancora più in basso, perché abbiamo bisogno di una discreta ed elevata superficie, perché solitamente si usano ex-magazzini seminterrati, ex-fabbrichette su uno o più livelli, spazi open o con colonne industriali, o di recente, le palestre delle scuole, i luoghi in assoluto meno adatti a causa della dispersione ed enormità degli spazi, delle altezze, all’amplificazione dei rumori, al fatto che quello non sia un luogo deputato alla sola pratica ma sia utilizzato per qualsiasi attività sportiva.
  • Il luogo dove si pratica è da intendersi come la casa nella quale cresciamo fin da bambini, che ci ospita e ci permette di studiare e svilupparci nella disciplina che abbiamo scelto. Tutti comprendono che la pratica in un luogo malsano o inospitale ha in sé qualche cosa di negativo: chi non ricorda della sua infanzia la “casa” dei nonni o degli zii, quella casa magica dove anche un biscotto era buonissimo, dove i sogni si amplificavano e dove noi abbiamo messo parte dei nostri ricordi di bambini? Ecco, per il praticante il dojo dovrebbe evocare un poco questo ricordo.
  • La maggior parte degli insegnati sottovaluta il luogo dove avviene la pratica. La mia lunga frequentazione di palestre e dojo in giro per l’Italia e all’estero mi ha portato a verificare che rarissimi sono gli insegnanti che hanno dedicato un’anima al dojo, ed è sempre stato considerato un poco come una “cornice”: un quadro però deve avere una cornice che risente della sua anima, anzi, la cornice stessa diventa parte integrante del quadro, se non sostanziale.
  • Nel corso dei secoli, dalle più diverse latitudini, si è potuto osservare un continuo “ritirarsi” da parte di uomini e donne, alla ricerca del “superno”, forse alla ricerca di Dio.
    Gli esempi sono tantissimi, e qui vale la pena ricordare che Milarepa passò anni in una grotta in Tibet su indicazione di Marpa, il grande traduttore dei testi antichi; e come non comprendere che una cella di un convento può essere anche più tremenda di una prigione vera proprio perché a portata di mano c’è la libertà di interrompere l’autosegragazione, il silenzio, la ricerca, la libertà, ma si decide di non farlo. Quanti si sono persi e ritrovati in una cella di convento, pregando e meditando su se stessi, e dalla loro segregazione, da quel dojo, sono usciti capolavori del pensiero umano.
  • Jorge Louis Borges, il grande scrittore argentino, diceva che il più grande labirinto mai creato era il deserto, che è al tempo stesso anche uno dei luoghi più auto segreganti che si conoscano, perché dando l’impressione di sentirsi liberi ti distrugge e ti fa perdere dentro di sé per la sua “mancanza di tutto”. Borges, da grande pensatore, saltava a piè pari tutta la concezione legata all’autosegregazione intesa come luogo chiuso, andando direttamente al “luogo deserto” come metafora del “cercare se stessi o perdere se stessi, perché chi si autoisola dalla vita e dalla realtà lo fa per ricercare sia dentro se stesso sia attraverso lo stesso nuovo ambiente che lo circonda.
  • Fatto sta che anche Gesù Cristo decise, almeno per quanto ci è permesso di sapere dalla vulgata, di digiunare per quaranta giorni e quaranta notti nel deserto: il deserto porta in sé il significato di perdizione, di perdersi nelle sue sconfinate distese e moririci se non si conoscono le strade per poterne uscire. Anton Checov, il grande scrittore russo molto in voga verso la fine dell’ottocento e parte dei primi anni del secolo XX, scrisse un racconto che consiglio a tutti di leggere, oggi trovabile credo solo nel mondo del libro di antiquariato o remainders “avanzato”, dal titolo “Una scommessa”.
  • In breve, si tratta di una scommessa che un ricco uomo fa una sera dicendo che la segregazione è molto peggio della morte, e scommette una grande somma con una persona che dice di riuscire a resistere 15 anni in una sua segregazione volontaria in una casetta, senza mai contatti con l’esterno o notizie, senza mai parlare con nessuno.
  • E qui Checov in brevi ma fulminanti pagine ci fa vedere l’abisso dentro il quale precipita la mente e l’animo di un uomo che decide di segregarsi volontariamente, ma senza un impeto di ricerca, solo quello di poter guadagnare una grande somma alla fine della scommessa: un percorso di perdita e abiezione spirituale e, infine, di rinascita. Alla fine del tempo pattuito, esattamente il giorno che precede la vittoria da parte del “recluso”, con una lettera toccante e straziante al tempo stesso, egli dichiara che tutto ha superato e tutto compreso, e “pieno” di comprensione della futilità delle cose umane e materiali e del loro temporaneo valore, lascia, abbandona tutto e tutti risultando quindi perdente agli occhi del mondo, e rinuncia alla vincita della scommessa, per rinascere a nuova vita.
  • Il dojo quindi è da considerare come un vero e proprio luogo di segregazione, un luogo nel quale uccidere la struttura del baco che ci avvolge per diventare farfalla. Gli esempi in occidente a livello di letteratura di massa sono rarissimi, perché l’occidentale è portato a superare piuttosto che raggiungere (malattia che peraltro ha contagiato ormai moltissimo anche il medio ed estremo oriente). Uno di questi esempi, strabiliante per la sua dinamica letteraria ed espressa creatività, oltre a quello appena citato di Cechov, è stato scritto da un uomo che stava al concetto di ricerca dell’illuminazione come il ferro all’acqua, tanto per fare un esempio banale: Alexandre Dumas, sì, quello dei tre moschettieri.
  • Con il suo libro Il Conte di Montecristo, del quale a questa disamina interessa una parte minima del testo, all’inizio, raccolta in una ventina di pagine soltanto, Dumas ha appassionato intere generazioni e fatto sognare re, capi di stato e bambini di tutte le latitudini; a noi interessa l’incontro che avviene nel Castello d’If, l’isola-prigione di fronte  a Marsiglia, tra Edmond Dantès e l’Abate Faria. Credo che molti di voi abbiano letto da ragazzi il testo, per cui molti sanno di cosa sto parlando: sto parlando di resurrezione, di rinascita, di conoscenza, di diventare farfalla. E quale posto al mondo poteva essere usato come figura letteraria se non la peggiore di tutte le prigioni, l’aver perso tutto, l’aver tutto allontanato e distrutto, se non la reclusione estrema e solitaria, quasi l’impazzire per il nostro destino ma soprattutto per il destino delle persone a noi care. Ebbene. Dumas scopre, nella Parigi di metà ottocento (il testo è stato pubblicato nel 1845), l’illuminazione. Dumas comprende che la resurrezione può avvenire anche qui, in vita, ora, adesso. E Dantès risorge, o meglio, diventa un illuminato, e cambia, al punto che nessuno dei suoi lo riconosce più, si “trasfigura”, cambia addirittura il suo nome, diventa un altro uomo.
  • Questo è ciò che potrebbe accadere in un dojo, se lo si considera alla stregua di Dumas o di Checov di cui ho parlato prima, un luogo che ci può far impazzire per la ricerca estrema che porta in sé. Ma, c’è un “ma”: tutto questo può avvenire a una condizione, perché altrimenti una prigione è e resta solo un luogo di segregazione e dolore: Dantès incontra un Maestro, un vero Maestro, un uomo dalla conoscenza sconfinata, un uomo i cui studi profondi risalgono e affondano le radici all’interno del pensiero della Chiesa e la superano perché è uomo di scienza profonda, conosce i misteri del sapere, della scienza applicata e conosce le vertigini profondissime dell’animo umano. E questo uomo dona con amore a Dantès tutte queste conoscenze, lo accoglie come amico-discepolo, e poi, come suo figlio. A lui tutto ha donato, l’amore, il sapere, la conoscenza e la ricchezza. Che lo stesso Dantes, a questo punto diventato Conte di Montecristo, non usa per il suo bene personale, per “vivere bene”: la usa come “strumento”. Il denaro nelle sue mani diviene uno strumento: quante analogie con i maestri dell’oriente, come le loro storie, quante analogie con gli scritti profondissimi del Tao Te Ching, di Lieh Tsu, di Chiang Tsu, con certi abissi che alcune storie Zen ci aprono!

  • PARTE 2
  • Il nostro corpo può essere considerato come un “dojo”, il luogo dove si può raggiungere l’illuminazione, la salvezza. La santità e la salvezza della nostra anima è invece l’illuminazione. Il corpo è il luogo, la cornice. Il luogo come cornice del quadro, al tutto. Ecco perché i latini dicevano: mens sana in corpore sano, intendendo mens come anima.
    Moltissime sono le persone che furono deportate nei campi di concentramento, e tra i sopravvissuti dei lager, diventati conosciuti per i loro scritti, si legge e intravede molto forte che il potere di superamento della situazione contingente, nel momento del massimo abbattimento dell’animo e del fisico umano, è dato dal rispetto, dall’essere presenti, da una sorta di illuminazione, dall’avere e assumere e mantenere in sé una onestà, un aiuto reciproco e una dignità anche del proprio corpo, quasi perfetta, ascetica. Di questi sopravvissuti consiglio la lettura, coadiuvante a questo discorso, dei loro libri e di due in particolar modo: il nostro Primo Levi con “Se questo è un uomo”, e il meraviglioso “I racconti di Kolyma”, di Varlam Salamov. Dalla loro testimonianza si riesce a vedere e si comprende che si è salvato chi è riuscito a mantenere perfettamente pulita la cornice, chi ha mantenuto una sua propria dignità di essere umano pur nella completa abiezione.

  • Mantenere la propria dignità di essere umano anche all’interno del dojo è fondamentale per poter anche solo iniziare a cercare l’illuminazione. E questo argomento, anche se caro lettore ti sembra così “lontano”, devi ritenerlo molto più vicino di quanto tu possa credere: quanti eseguono senza pensare, senza comprendere che in un certo momento viene lesa e viene a mancare la dignità di base, gli ordini e le imposizioni e punizioni sia fisiche sia psicologiche di tanti maestri e dei loro presunti insegnamenti! 
    Il dojo è un pentagramma dalle note infinite: su un pentagramma possono essere posate note a casaccio, senza alcun senso musicale, tanto per fare dei puntini neri; oppure possono essere lasciate note sublimi, eterne, come quelle di Bach o Mozart o Beethoven o altri. Su un pentagramma le note, che sono solo 7, si ritrovano una vicino all’altra, e possono stridere o dare echi sublimi, dipende da come vengono posate, ma sempre sul pentagramma, che ne definisce lo scopo e le finalità, e senza il quale sarebbero solo dei pallini neri su un foglio bianco. Ecco allora un passo ulteriore: il dojo come insostituibile e ineguagliabile luogo della realizzazione, luogo dove tutto si può compiere e tutto può succedere, senza il quale la pratica stessa è vuota come vuote sono le note su un foglio bianco.

  • Non è un caso che chi è sopravvissuto ai lager o alle deportazioni in Siberia o peggio ancora nella Kolyma, ed ha dato testimonianza a noi siano stati quasi sempre persone appartenenti al mondo dell’arte nel suo senso più ampio: sono gli unici che nonostante l’orrore subito siano stai in grado di testimoniare la sofferenza, la privazione, il dolore, lo spaventoso decadimento dell’essere umano da parte dei secondini e dei prigionieri vittime, il pericolo stato di abiezione nel quale sono caduti e purtroppo ancora oggi cadono le persone che segregano altri esseri umani, quasi a creare un ponte ideale semiaperto verso qualche girone dell’inferno qui in terra.
    La via del guerriero, o bushi-do, è una via di segregazione fisica e spirituale. Il samurai decideva di segregarsi, di isolarsi dalla vita delle persone normali, da lui sempre disprezzate, arrivando al punto di generare una pratica costante in ogni momento della sua vita per poter sfociare nel momento supremo del “superamento”, arrivando a donare la propria vita al suo signore. Il samurai decideva di passare da uno stato di auto segregazione, a uno stato di sublimazione della stessa donando la vita.
  • Per il samurai era un tutt’uno concepire la vita in un ambito ristretto tutto dedito a cose che le persone normali non sapevano neanche esistere, come l’onore, la volontà, la dedizione assoluta, la rinuncia alle cose materiali, lo studio dei testi antichi, lo studio annichilente delle tecniche e la loro applicazione in continuo per poter arrivare al momento di discrimine, della battaglia vera e propria. Il samurai incarna il concetto visibile ai più di sublimazione dell’autosegregazione, del vivere ritirati con un intento preciso di superamento del sé. Il samurai decideva di isolarsi per la propria ricerca personale che coincideva con quella del Maestro che lo guidava. Il guerriero lasciava così il posto all’uomo che cercava l’illuminazione anche attraverso l’assassinio e la battaglia cruenta, per lasciare ai posteri più che un segno delle sue opere, un segno del suo essere vissuto. Il samurai sperava e ricercava tutta la vita la morte onorevole, come l’asceta ricerca la presenza del divino in ogni oggetto, in ogni respiro o pensiero.
  • La nostra pratica, che dovrebbe essere quotidiana per poter diventare continua e autentica, deve tendere a questo ideale punto, deve, in sostanza, divenire un tutt’uno con il nostro vivere: noi diventiamo la pratica, la via diventa un tutt’uno con noi e noi ne diventiamo in vita l’espressione e la manifestazione.
    A quel punto il dojo non è più il nostro corpo, non è più un qualcosa “altro da noi”, a quel punto il dojo è con noi, siamo in comunione totale con esso e proprio perché non esiste più questa dicotomia riusciamo a superare lo stato umano del divenire.
    La decisione di prendere quindi la “strada” da parte del praticante non è da sottovalutare o prendere alla “leggera”: è come un accettare i voti monastici pur mantenendo il vivere quotidiano nella comunità, con un lavoro, una moglie o un marito e dei figli. La concezione del dojo appunto come luogo di segregazione a questo punto si espande al di fuori e al di là della sua concezione materiale di quattro mura, di cornice a un buon lavoro: è diventato esso stesso parte integrante della via.
    Per questo motivo avvicinare pensieri non consoni al “divino” o alla nostra via non è corretto, in nessun campo; per questo motivo la “cornice”, cioè il dojo, deve essere adeguato alla pratica. Il Feng Shui spiega senza spiegare queste cose, dice che ambienti grandi sono dispersivi per l’energia, che lavorare in spazi troppo grandi (tipo le palestre nelle scuole o nelle ex fabbriche), è disperdere la concentrazione e le energie, il perdere ogni volta qualcosa.

  • Il dojo è un luogo sacro dove il “divino” potremmo essere noi stessi, dove è facilissimo confondere il dito con la luna, dove si rischia di diventare degli adoratori del maestro piuttosto che dei ricercatori della via, è un luogo dove lo spazio può diventare insostenibile per la pressione psicologica che arriviamo ad accumulare per la ricerca che stiamo portando avanti, e al tempo stesso può essere il labirinto delle nostre sensazioni, il labirinto dove tentiamo di raggiungere per le più disparate strade l’illuminazione. 
    Il dojo diventa contorno e assenza: è lì, in quel momento, e al tempo stesso è inesistente; quante volte capita che “ci si trovi” alla fine di una lezione senza essersi accorti dello scorrere del tempo, quasi come la famosa freccia di Herrigel che “si è scoccata”.

  • Questo è un buon esempio comprensibile ai molti di integrazione dello spazio con il tempo, in quanto essi (lo spazio e il tempo) sono solo le stesse facce della medesima medaglia, in quanto nella nostra realtà esiste solo il tempo e la sua applicazione, per modestia di interpretazione, è la sua derivazione oggettiva, cioè lo spazio. Quando siamo in contatto con quel qualcosa che possiamo chiamare Dio, Assoluto, Tao, Do, Via, in quel momento ci accorgiamo che lo spazio è scomparso, che l’unica cosa che ci lega all’eternità è il tempo e se guardiamo bene dentro il pozzo dei nostri desideri, in fondo in fondo all’anima, ci accorgiamo cha anche il tempo è solo un limite superato, che il tempo altro non è se non il nostro passare energetico nel corso della storia.
    Il dojo quindi assume il significato di contenitore di queste sensazioni e al tempo stesso di “non-luogo”.

  • Il dojo dunque arriva a essere concepito e inteso come un non-luogo, un posto cioè che non esiste in,quanto tale: certo, esistono le mura, le pareti, i colori, il legno, il tatami, ma esso, in quanto tale non esiste, si manifesta soltanto quando noi siamo insieme al suo esprimersi, quando noi “siamo” il dojo. Il dojo a quel punto è dentro di noi, e noi soli possiamo concepire e comprendere il suo superamento, il superamento delle nostre barriere, dei nostri limiti, il raggiungimento di uno stato superiore di coscienza, che ci permette di essere, anche se conficcati nella realtà quotidiana, qualcosa altro da noi, o meglio, altro da sé. Arrivare al concetto di non-duale dello spirito e dell’anima. Il dojo ci aiuta in quanto materialmente presente ogni volta ai nostri fallimenti, alle nostre angosce ai nostri successi e dolori, ci guida silenzioso e presente a crescere, e come il bambino quando stringe stringe la mano del papà, un certo giorno ci molla senza che ce ne siamo accorti, ci lascia andare via, perché sente che la nostra crescita è stata interrotta o si è spenta, e allora diventa una palestra, quattro mura e un tatami per tirare un ippon.

  • Il dojo della nostra vita è il nostro corpo, la via è quello che ognuno di noi ha dentro di sé che ognuno di noi può trovare o sviluppare dentro di sé per crescere e arrivare al superamento del sé, al non-duale.
    Sorrido quando sento parlare le persone della palestra, io stesso spesso ne parlo come luogo dove si può sudare, ma conosco bene le accezioni profonde del dojo e i suoi significati più reconditi.  Credo che ogni buon praticante (perchè non esistono “maestri”, ma solo ricercatori sulla comune via della conoscenza, esistono solo persone che non “sanno” più di noi, ma che hanno intuito qualcosa di più di noi) se concepisce il dojo con i criteri che ho provato a enunciare, possa comprendere la sacralità del luogo pur mantenendo uno stato di cosciente piacevolezza nel praticare in tale luogo.
    Quando una persona va in chiesa non ci va per raggiungere l’illuminazione, ci va perché in via passiva riceve lo “spirito” di Cristo, non interagisce con il divino. Una persona va in un luogo sacro per una miriade di motivi, spesso e quasi sempre solo personalissimi (dammi la grazia, perdonami per questo  o quello, fammi guarire, diventare ricco ecc); una persona va in un dojo all’inizio anch’essa per una serie di motivi (voglio muovermi così ritorno in forma, imparo a difendermi, e molte altre), poi, dopo un certo periodo, e anche a prescindere dall’insegnante, incomincia ad assumere un atteggiamento sempre più “proprio” al luogo, lo incomincia a intendere come un luogo che in aiuto, o come si dice oggi, in sinergia con le parole e i gesti dell’insegnante, insegna anch’esso, con la sua muta presenza.

  • Per questo motivo il dojo è indispensabile come luogo e come cornice: nessun dettaglio è superfluo, anzi, ogni minimo particolare diventa espressione della continuità dell’insegnamento e dell’insegnante stesso. In questo contesto l’insegnate stesso ritorna ad assumere il ruolo che gli compete, di “dito che indica la luna”, e non di luna egli stesso. L’insegnante o se preferiamo, il maestro, diventa uno strumento della Via, sulla Via lui stesso ma solo più avanti di noi, e come un buon padre di famiglia, deve tendere la mano ai propri figli perché questi lo possano prima raggiungere e infine superare. Credo che nessun genitore possa concepire la vita dei propri figli tenendoli schiacciati per fare in modo che non possano mai superare la sua stessa grandezza.
    Pertanto il dojo non è solo un semplice luogo, non è una semplice palestra: una palestra è un luogo dove si pratica lo sport, la pallacanestro, la pallavolo, si fanno i pesi e si corre sul tapis roulant. Un dojo è un luogo di consacrazione del divino nella nostra realtà, nella nostra pratica quotidiana, è il nostro “spazio vitale” nel quale la nostra sfera si incontra con altre forme di energia comunicanti per un obiettivo comune benché singolo e unico: il crescere.

  • Questo è il senso della pratica, e la domanda che ogni praticante dovrebbe porsi è la seguente: “e adesso?” Cosa fare quando si è tutto imparato, si conoscono tutte le tecniche, si è sconfitto ogni avversario, quando si è diventati padroni del mondo esteriore e nulla ha sfiorato il mondo interiore? Facendo un parallelo musicale, mi viene in mente la canzone di Roberto Vecchioni, un professore di liceo classico prestato alla poesia che poi traduce in musica, dal titolo Stranamore, esattamente nel momento quando dice: “Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione, e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione perché più in là non si poteva conquistare niente: e tanta strada per vedere un sole disperato”.

  • Nutrire lo spirito è parte intrigante della vita nel dojo, attraverso il dojo, la sua vita la sua frequentazione e la sua sofferenza. Il dojo che è costruito senza amore è un dojo che dà poco, pochissimo, è frutto della contingenza dei suoi insegnanti, delle sue reciprocità legate ai soldi e al potere, non della ricerca interiore. Un allievo “creato” o costruito in questo modo non è “perso”, ma farà una gran fatica a ritornare sulla strada. Perché il seme quando è piantato male cresce male, ma cresce sempre, e solo una grandissima forza di volontà lo potrà far diventare un vero albero forte e robusto, di esempio per tutti gli altri alberi della foresta, faro e segno per tutti gli esseri che la abitano.

copyright: Matteo Luteriani 4 ottobre 2010