L'arte educativa del M°Fujimoto 

 

 

Roberto Travaglini Dójò Fujinami Bologna pratica dal 1979

 Docente di pedagogia università di Urbino

Pubblicato sulla rivista Aikido della nostra associazione  

Aikikai  d'Italia  2006

 

  •  Vorrei riproporre un bell'articolo redatto dal Maestro ed Amico Roberto Travaglini in merito ai sistemi educativi e didattici di Fujimto Sensei.    

 

  • C’è chi impara a utilizzare i metodi d'insegnamento grazie alla frequentazione di un corso di strutturata formazione all'insegnamento (com'è oggi voluto dalla legge per gli insegnanti scolastici di ogni ordine e grado) e c'è chi, per innata abilità, è invece capace di insegnare in modo del tutto spontaneo senza avere aderito a particolari percorsi formalizzati di apprendimento: è allora un artista naturale della didattica.  È qualcuno che è in grado di formare l'altro in modo magistrale, da maestro. Si potrebbe osare dire proprio questo pensando al Maestro Fujimoto, che Maestro - con la "M" maiuscola - è stato nel senso propriamente  etimologico del termine. Ricordo che quando stavo organizzando il convegno  nazionale sull'aikido per l'Aikikai d'Italia,  qualche anno fa, parlandone con il Maestro e cercando di spiegargli le difficoltà che incontravo nel comprendere i reali processi di insegnamento apprendimento dell’ Aikido a partire dalle prime fasi evolutive all'età adulta, fece accenno al concetto giapponese de i – shin – den - shin, un concetto che, più che avere studiato approfonditamente (cosa che avrei fatto in seguito), sentivo più che mai palpitante nei confronti proprio di chi me ne stava parlando. Quasi senza farmene accorgere, ne parlò con non chalance colpendo, come spesso accadeva, nel segno, segnandomi ancora una volta profondamente. Mi lasciò stupito il rapido modo con cui mi volle orientare. Le parole spese in proposito furono poche, ma essenziali. Da lì prese corso un personale bisogno di approfondire questo concetto, di cui la tradizionale cultura giapponese è intrisa da sempre. Il rapporto personale con il maestro risuona delle note della relazione fondata su i-shin-den-shin, una trasmissione del sapere e dell'essere da maestro ad allievo, incondizionata e totale, da cuore a cuore, da mente a mente, possibile con l'esempio diretto e non certo con il medium della concettualizzazione; né tanto meno in maniera formalmente istituzionalizzata. Il passaggio è diretto e senza mediazioni culturali. È un dialogo del silenzio pregno di fondamentali contenuti esistenziali, laddove l'esempio e l'identificazione nell'azione del maestro sono lo strumento essenziale dell'esperienza formativa, che è un'esperienza globale, appassionante, totalizzante. È la via, il dò. È un intenso impegno finalizzato a orientare l'intero sistema vitale dell'individuo. L'indicazione del Maestro mi sollecitò a fare una rapida associazione coll'espressione giapponese uchideshi o allievo interno (contrapposto al soto-deshi o allievo esterno), il quale vive a disposizione del maestro mettendosi totalmente al suo servizio; vive con lui, nella sua casa, relazionandosi continuamente a lui e condividendone la quotidianità.
  • Il maestro si impegna ad abbattere ogni impedimento intimo dell'allievo all'apprendimento, con strumenti spesso simbolici e metaforici, per spogliarlo di ogni contenuto superfluo all'apprendimento stesso, arrivando finanche a offenderlo, nell'intento reale di offendere e quindi annichilire un Io altrimenti destinato a limitare, se non a inibire l'espressione del proprio vero Sé, e consentendo così ai reali potenziali dell'individuo di affiorare. Il terreno è in questo modo pronto per forgiarsi, trasformarsi, farsi creativo; per risvegliarsi. Perché le parti più profonde di sé possano creativamente fluire e produrre frutti benefici a se stessi e al proprio mondo relazionale è necessaria la caduta delle difese egoiche, che imprigionano l'individuo nel profondo della sua struttura psicosomatica, nel corpo e nella mente; che ne limitano la libertà; che lo assoggettano alla dipendenza. Le negazioni, umiliazioni o punizioni del maestro dovrebbero avere un effetto benefico proprio in questo senso.Anche in questo il Maestro Fujimoto fu maestro: so bene di quanti, a lui vicini, siano stati profondamente sferzati al risveglio; e di quanti, poco propensi a comprendere in profondità e ad accettare un sistema educativo molto diverso dal nostro, abbiano rinunciato alla via o cambiato direzione per le incoercibili difficoltà vissute dinanzi all'incisiva intenzione di colpire con diretta immediatezza i propri punti deboli, senza esitazioni, e di mettere il nostro Io dinanzi alle sue intime contraddizioni. Era forse un inconsapevole samurai dell'autenticità, in fiera lotta contro una contemporaneità ipocrita e amorale. Fungeva da specchio alla realtà di chi osava specchiarvisi; obbligava a osservare la verità, qualunque essa fosse, senza inibizioni derivanti dalle costrizioni moralistiche legate alla nostra storia culturale. La ghigliottina dell'ipocrisia interiore tendeva a falcidiare molti spiriti contraddittori. Chi però avesse avuto l'umile forza dell'accettazione tornava più vigoroso di prima, pronto per plasmarsi in modo sempre più funzionale alla via tracciata  dall' aikidó. Sua era la caratteristica, da maestro, di gioire insieme agli altri e far gioire, così come quella di smorzare i toni, forse inconsciamente, un po' troppo narcisistici di chi intendeva mostrare un Io oltremisura forte e piacente. La sua fu un'educazione etica e morale che da quando lo conobbi non lo abbandonò mai e che mai tralasciava, che si fosse sul tatami o fuori. E più gli si era vicini (non solo fisicamente), più la sua devastante forza di demolizione egoica era capace di agire quanto mai severamente, fino a mettere a dura prova la benché minima capacità di accettazione e adattamento alle realtà mutanti della vita, belle o brutte che fossero, in ogni momento, convinto assertore del valore acritico e pragmatico dell'Adesso. E questo nonostante la grande energia catalizzante che la sua innata simpatia suscitava nelle persone che gravitassero nella sua sfera d'azione. Così era anche il suo aikidó, attraente e al contempo serio e, se vogliamo, severo, parimenti metamorfico nel tempo e nell'immediato, e metamorfica doveva farsi l'abilità dell'allievo ad adattarsi al ciclico mutare tecnico, sia come uke sia come tori. Questo perché il corpo rimanesse o tornasse ad essere flessibile e adattabile v come quello di un bambino non ancora troppo strutturato e condizionato dalle tensioni socioculturali. Al mutare tecnico-didattico non corrispondeva però la confusione o la dispersione, perché le sue linee educative erano ogni volta chiare e precise, sempre adamantine e raffinate, mai grossolane, e comunque pronte a cambiare direzione nella logica del mutare al mutare delle correnti energetiche della vita. L'analitica ricerca dell'essenza tecnica, del waza perfetto o perfettibile, comunque passibile di un qualche auspicabile miglioramento, era una ricerca continua e incessante che ha segnato l'intero percorso aikidoistico del Maestro. È stata una ricerca raffinata, tenace, che si è sempre più calata nelle profondità dell'anima della tecnica, un'ininterrotta ricerca del focus vitalizzante del waza. Il minimalismo tecnico, pur accompagnando un'instancabile ricerca della precisione, non rinunciava al dinamismo d'insieme: la forma, studiata e ripetuta molto attentamente, si faceva fluida grazie al movimento circolare prodotto dall'energia interiore; la forma doveva essere sostanziata, vitalizzata, così come la forma (educata) dell'individuo doveva semprerispecchiare il suo reale essere interiore. Vista in questo modo, la tecnica può intendersi come lo strumento per rettificare e rendere positivo kokoro, la mente-cuore del praticante. Non per niente spesso il Maestro ci faceva convintamente osservare che da come un aikidoista si abbiglia in dójo e si comporta nella vita si può capire la qualità del suo aikido, in fondo ricordandoci che non esiste soluzione di continuità tra l'esterno e l'interno, tra la forma dell'essere e la sua reale sostanza, tra la mente e il corpo. Questo poteva essere sufficiente a valutarlo; e la diagnosi era infallibile. E se non si era in grado di comprenderne il senso nell'immediato, il tempo gli avrebbe comunque dato ragione.In effetti, il sistema valutativo del livello tecnico raggiunto dall'allievo che il Maestro nel tempo aveva messo a punto è apprezzabile in particolare non solo per la possibilità che concede all'esaminatore di cogliere con adeguata oggettività anche gli aspetti più sfumati del reale livello di abilità performativa raggiunto, ma è anche stimabile per l'intrinseco potenziale formativo, davvero considerevole, che questo approccio valutativo nasconde. Ricordiamo tutti quanto la richiesta del Maestro all'esaminando fosse sempre quella di dare il massimo, di impegnarsi con tutto se stessi, non tanto rispetto a idealizzate richieste tecniche (che ha molto di meccanicistico); il "massimo" sollecitato era, piuttosto, relativo a se stessi e al proprio potenziale energetico, alla dimensione del proprio ki. Durante la preparazione dell'esame e durante l'espletamento della prova l'impegno richiesto doveva essere portato al livello più elevato possibile. Allo stesso modo il Maestro dava il massimo di sé nel trasmettere l'arte, coinvolgendosi totalmente nella circolarità dell'energia della classe, nel chiaro intento di creare un'atmosfera particolarmente concentrata, oltre che socievole e gioiosa, e comunque la più funzionale possibile per l'apprendimento sia individuale sia collettivo.Si può davvero ritenere che il sistema metodologico -didattico (e valutativo) che ha saputo costruire, e che ora ci ha lasciato, sia un tesoro da conservare molto gelosamente e da mettere a frutto con sempre crescente vitalità, ancora perfezionandolo e adattandolo ai necessari mutamenti della realtà presente e futura. In effetti, il Maestro Fujimoto ha saputo cogliere gli aspetti più caratteristici della struttura socio-antropologica che connota la nostra cultura (per essere vissuto oltre quarant'anni in Italia) e non per questo ha tradito ma, anzi, è riuscito a integrare molte proprietà didattiche tipiche della cultura estremo - orientale; per questo si può a ragione sostenere che egli abbia dato vita a un modello educativo integrato invidiabile dalla più avanza scienza pedagogica. E lo ha fatto a partire dalla sua esperienza aikidoistica, piuttosto che da una formazione meramente teorica. La valutazione in itinere e la costante attenzione alla più puntuale correzione delle azioni tecniche del praticante, insieme a un inquadramento notevolmente coordinato dei waza previsti dal quaderno tecnico dell'Aikikai d'Italia (quaderno creato dal direttore didattico, il Maestro Hiroshi Tada, che riassume i punti essenziali della programmazione didattica nazionale), hanno fatto fare un indubbio balzo in avanti all'insegnamento dell'algido. Nella visione aikidoistica del Maestro, il complesso tecnico si articola come un tutto profondamente coeso, che al contempo tiene conto delle molteplici sfaccettature delle singole specificità tecniche. Ognuna di queste ha sempre un aggancio con tutte le altre, perché il tutto si muove organicamente. Il praticante in questo modo si abitua al metodo, piuttosto che a un apprendimento meccanico e puramente mnemonico delle singole esecuzioni performative delle tecniche. Il metodo si fa sistema cognitivo e, se approfondito e portato al di là del tatami, diviene sistema di vita. Questa ricerca del praticante fa eco al medesimo modello di ricerca che il Maestro si attendeva soprattutto dagli istruttori, il cui impegno formativo e riformativo era sempre al centro delle sue disposizioni didattiche. La sua voce potente e autorevole, tinteggiata dal suo tipico accento "giappitaliano", spesso tuonava così, redarguendo e insieme risvegliando dal torpore il praticante (che si considerasse) "anziano": «Pensionato?» o «Già pensione?». Se è nostra usanza pensare che il raggiungimento (formale) di un certo grado dan ci consenta, di rimando, l'acquisizione della maestria e, di conseguenza, la possibilità di diminuire l'esercizio fisico e mentale dell'aikidó "rilassandoci" sul solo insegnare, ebbene questo cliché era terreno ideale del Maestro perché vi penetrasse con benefiche, quanto acute osservazioni critiche, così da abbatterlo senza mezzi termini, tori o uke che si fosse, qualunque grado si avesse e a qualsiasi fascia di età si appartenesse.L'impegno del Maestro nel mantenere alto il livello attentivo dell'allievo nella Via non è mai mancato. Le sue fulminee e sincere osservazioni, derivanti da una particolare sensibilità relazionale, arrivavano sempre a destinazione, quasi conoscesse perfettamente cosa si nascondeva dietro le apparenti movenze dell'allievo; così facendo toccava le giuste corde del suo animo, mobilitando il suo intimo stato motivazionale. Se si faceva qualcosa, qualunque cosa si avesse intenzione di compiere, doveva essere fatta bene e integralmente, perché è allora che si è davvero motivati.Si può in effetti ritenere che il Maestro sintetizzasse ottimamente le entità filosofiche del Bene, del Vero e del Bello, le stesse virtù che alcuni autorevoli pedagogisti considerano le fondamenta necessarie per una rivoluzione globalizzata dell'educazione. Il suo aikidó e il suo insegnamento dell'arte sapevano coniugare il senso etico dell'essere grazie a un preciso cammino da intraprendere (dò) - un sistema vitale globale - con l'essenza dell'essere (il Vero).Non meno essenziale è rendersi conto quanto sia "bello" vedere praticare e vivere un aikidó esteticamente toccante, che raggiunga i sensi, che faccia vibrare l'intera entità corporea. Il riferimento qui è al valore del Bello. Per il Maestro si trattava di un talento naturale, di un'innata potenzialità che tutti devono coltivare, essendo un importante tramite per la comprensione e il perfezionamento della tecnica. Non infrequentemente diceva: «Guarda bello esempio, non brutto»; il bell'esempio è formativo, il brutto no, a meno che non sia un «bellissimo bruttissimo esempio!», comunque formativo, per paradosso, per capire come non si debba agire.Il gesto corretto è in sé naturalmente bello, perché semplice, essenziale e funzionale. È uno spontaneo moto coordinato del corpo e della mente. È spontaneamente accurato, senza affettazioni né ingiustificati pressapochismi. È una naturale espressione artistica. E artista il Maestro lo era in pieno. La grande e profonda traccia che ha lasciato nei suoi oltre quarantanni di aikidó nell'Ai-kikai d'Italia è un lascito davvero prezioso, una vibrazione energetica di elevato valore che, come da sue ultime formali volontà, deve essere messa nella condizione di continuare a vibrare. L'impegno che inderogabilmente ho preso, e che è condiviso con altri, è di mantenerla viva, affinché se ne possa godere ancora e ne possano apprezzare l'alto tenore formativo anche le nuove generazioni. A volte non si capisce come alcuni della stessa famiglia associativa non comprendano, soprattutto quelli più lontani o che si sono allontanati dal piacere di una simile arricchente vibrazione, l'enorme tesoro, per nulla esclusivo, che ci è stato regalato dal Maestro Fujimoto, una ricchezza metodologico-didattica ancora notevolmente stimolante per un sempre crescente apprendimento dell'arte aikidoistica. "Dimenticare tutto...".

 

 

 

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