Tempi Eroici I

 

TEMPI EROICI

I PIONIERI DELL'AIKIDO A ROMA

Di Paolo BOTTONI

 

1967 - Gli inizi del maestro Tada a Roma

di Paolo Bottoni.

 

M° Paolo Bottoni - Lauria  2011

  • Dall'inesauribile memoria di Paolo Bottoni scaturisce questo secondo gioiello all'insegna della nostalgia: una dozzina di bambini ed un grande Maestro alle prese con un enorme stanzone polveroso, passato poi alla storia come Dojo Centrale.
  •  Finalmente dal mazzo di chiavi uscì fuori quella giusta, dopo averne provate decine, e potemmo aprire una porta quanto mai cigolante, ed entrare dentro, nella penombra; man mano che apparivamo le altre porte per avere un po' di luce, ci si rivelava agli occhi un enorme capannone, con due gradinate ai lati, sommerso dalla polvere e pieno di rifiuti in ogni dove: ci aggiravamo circospetti in quel disordine, sollevando nuvole di polvere ad ogni passo, guardandoci ogni tanto di sottecchi con aria disgustata, mentre i due più giovani del gruppo (eravamo tutti tra i 13 e i 20 anni) avevano scovato da un grosso sacco dei polverosi ed ammuffiti guantoni da boxe, e dopo esserseli infilati avevano cominciato a darsele di santa ragione, indifferenti al resto del mondo.
  • Lui, il maestro Tada, altrettanto in differente, si aggirava intorno con aria pensierosa; a tratti fissava qualcosa, ed aggrottava la fronte, poi piegava un po' la testa da un lato, sapete, come fa sempre quando pensa a qual cosa, e sembra che stia per chiederti che ne pensi... Poi (come fa sempre...) scrollava la testa negativamente, e non diceva nulla. Alcuni di noi già si erano radunati vicino alla porta, pronti ad andarsene, e discutevano su quali altri posti si potessero andare a vedere, adatti ad una palestra per il maestro Tada. Lui intanto continuava il suo esame, tornava su dei posti già visti, si metteva in un angolo a braccia conserte a pensare. Nel nostro gruppetto intanto si malediva chi aveva avuto la sciagurata idea di proporre quel posto, e si conveniva sull'assurdità di crederlo un posto adatto. Il Maestro intanto si era messo al centro dello stanzone, e girava su sé stesso come per dargli un'ultima occhiata: poi accadde una cosa strana: mise le mani sui fianchi, e lentamente gli si dipinse sul viso un timido sorriso, che poi poco a poco si allargò fino alle orecchie; cominciò di nuovo a guardarsi intorno, questa volta annuendo ogni tanto, poi sparì a vedere che c'era dietro una porticina, col piglio sicuro di Colombo che prendeva possesso delle Indie Occidentali.
    «Beh, fece uno di noi, è abbastanza grande...» «Con una buona ripulita...», buttò lì un altro. «Dobbiamo rimediare gli attrezzi...», fece il più pratico. Era l'aprile del 1967, e per un paio di mesi avremmo lavorato con il Maestro a mettere in piedi il Dojo Centrale; sono passati orma molti  anni, il nostro gruppo si è poi diviso, ma l'esperienza di quei pochi giorni rimane incancellabile: ancora oggi, quando incontro qualcuno di quei ragazzi, dopo esserci a stento riconosciuti, mi sento subito chiedere: «Come sta il maestro Tada? Che dan è diventato ora?». Ho conosciuto e frequentato molti maestri da allora, ma lui rimane unico per la sua spontaneità, per la sua caratteristica di essere sempre naturale, anche quando fa qualcosa di fuori dal comune. Credo di avere allora intuito qualcosa di come si possa diventare padroni della propria arte: l'assoluta capacità di concentrazione del maestro Tada, applicata non solo al tatami, ma ad ogni aspetto della vita quotidiana, anche al più insignificante, è stata per me fonte di meraviglia, ammirazione, oggetto di invidia e di studio. Basti citare alcuni degli episodi con cui ho afflitto generazioni di ascoltatori, a partire dal celeberrimo affaire dell'acqua. Nel cortile dietro il Dojo, attaccati alle mura dell'Acquedotto Felice, c'erano una miriade di tubi e rubinetti dell'acqua, la cui funzione era per lo più esoterica, e noi dovevamo capire quali portassero l'acqua alla palestra. Il nostro piano era semplice ma efficace: ci radunavamo a concistoro nei pressi di un rubinetto, e discutevamo sulla sua utilità o meno; dopo un lasso di tempo variabile, decidevamo di passare alla prova empirica e lo aprivamo, dopo di che passavamo in corteo ad esaminare se da qualcuno dei mille rubinetti del dojo uscisse acqua, o qualcosa di analogo. Il Maestro ci sorprese in questi frangenti, e ci osservava incuriosito mentre aprivamo l'ennesima valvola; al momento di correre a vedere i risultati ci bloccò con un perentorio «Viene!». Nessuno si permise di obiettare, ma ci guardavamo in giro perplessi. Lui ci chiese «Voi non sente?», mentre indicava col dito verso lo spogliatoio, lontano una trentina di metri. Il San Tommaso della situazione corse come un fulmine agli spogliatoi, per uscirne trionfante, con un espressione che significava «Ma come, solo voi, non l'avevate sentita?». La cosa andò avanti per un po', con noi che aprivamo valvole ed il Maestro che ci diceva se e da dove usciva acqua, mentre noi assentivamo vigorosamente, e facevamo capire a gesti che prima non l'avevamo sentita solo perchè eravamo distratti. Una sola volta riuscimmo a fregarlo: lui abitava dove ora c'è la Segreteria dell'Associazione, con mobili rimediati qua e là da noi; un bel giorno gli portammo un mostruoso armadio, enorme e bruttissimo, ma utile. Lo volevamo portare dentro, ma lui ci bloccò con un perentorio «No entra». Poi se ne andò per i fatti suoi, e noi, poco convinti, tentammo di farlo passare per la porta: per un millimetro, ma non ci passava! Dopo ore di inutili tentativi, uno di noi inferocito afferrò una sega, e ne tagliammo una parte! Dopo averlo messo nella stanza, incollammo la parte mancante e stuccammo il tutto in modo che non si vedesse niente. Il Maestro al suo ritorno, per poco non svenne... continuava a girare intorno all'armadio, lo guardava, guardava la porta, e poi scuoteva la testa. Non si spiegava quello che considerava un imperdonabile errore di valutazione; noi intanto ci aggiravamo lì intorno con scuse varie, fischiettando e facendo gli indifferenti (ora però, mi viene un dubbio: come ha fatto poi il Maestro qualche anno dopo a tirare l'armadio fuori dalla stanza?). Questi piccoli episodi furono per me una grande lezione: il maestro Tada non ha trucchi: è indiscutibilmente una persona particolarmente dotata, in più si è allenato instancabilmente per tutta la vita, senza mai stancarsi, e il suo tatami è la vita, il suo dojo è aperto 24 ore su 24. Il suo
    segreto è tutto lì, e chiunque è libero di usarlo: arriveremo così ai suoi livelli? No, ma arriveremo sicuramente ai nostri massimi livelli, come lui è arrivato ai suoi. Gli allenamenti del maestro Tada erano leggendari anche per i giapponesi: gli stakanovisti in Giappone tirano 2000 shomenuchi al giorno con la spada: la sua dose giornaliera era di 10.000. Purtroppo è facile che questi rimangano aneddoti, storielle da raccontare agli amici, senza averne compreso la lezione; a quei tempi, mi piace ricordarlo, mentre noi ci davamo da fare ad imbiancare e pulire, al centro dello stanzone Gianni Cesaratto si accaniva a menare shomenuchi su un cavalletto, per ore e ore di seguito. Altri invece parlavano di come ci si allenava in Giappone. Credo che gli allievi più giovani abbiano il diritto di conoscere anche e soprattutto i nostri sbagli: o vogliamo raccontare di come erano eroici i nostri tempi, di come ci si allenava duramente, di come il vero Aikido sia morto ormai da tempo? Personalmente non mi vergogno di avere avuto a quei tempi una visione infantile dell'Aikido: ero un ragazzino, perchè dovrei vergognarmene? Non mi vergogno nemmeno a prendermi per i fondelli, questo non toglie che venti anni dopo io guardi a quel ragazzino con affetto, e un pizzico di rimpianto per le occasioni perdute. Ma torniamo a noi: un'altra grande lezione che ci diede il Maestro a quel tempo fu l'attaccamento al proprio dojo: l'idea che ci si deve sentire felici nello spazzare per terra, sturare lavandini, riparare tegole nel luogo dove si segue la via non ci è stata mai spiegata o giustificata, ci è stata semplicemente fatta vivere, ed è entrata a far parte del nostro bagaglio culturale. Anche chi di noi non aveva mai fatto Aikido, ed erano la maggioranza in quel gruppetto, attratto solo dalla figura del maestro Tada, è uscito da quei due mesi di lavoro molto più ricco di prima. Nessuno di quel gruppo ha più praticato Aikido, tranne il sottoscritto, che ha comunque iniziato 7 anni dopo. Al momento di congedarci, quando ormai il dojo, sia pure incompleto, era ormai in condizione di funzionare, tutti, credo, aspettavamo che il Maestro ci dicesse qualcosa, che ci spronasse a fare Aikido. Non ci disse nulla. Se avesse fatto un solo cenno, l'avremmo seguito fino all'inferno! Ma quel benedetto uomo non disse nulla, oltre a salutarci e ringraziarci, sembrava che non si rendesse conto che pendevamo dalle sue labbra. Negli anni che seguono ci ho pensato a lungo, a volte con un pizzico di rancore nei suoi confronti: in realtà noi eravamo convinti che ci volesse una sorta di permesso per fare Aikido, che non a tutti venisse concesso di far parte di una scuola così prestigiosa, e dovessimo aspettare una chiamata. Negli anni che seguirono incontrai ancora diverse volte il Maestro Tada, sempre con piacere, qualche volta con imbarazzo, specialmente quando lui arrossiva nel salutarmi, ed io arrossivo a mia volta. Eh sì, il Maestro Tada è timido, e a volte se ne ricorda! Nel 74 presi la storica decisione di iniziare a praticare, mi recai al dojo Centrale e feci la mia brava iscrizione. Nella stanza era anche il Maestro: i nostri sguardi si incrociarono per un attimo, e lui immediatamente arrossì, poi si sbilanciò in un largo sorriso, che mi sembrò volesse dire «Benvenuto. Finalmente hai capito». Ma forse era solo una mia impressione.

  • Nel 1966 (avevo ancora i pantaloni corti, o poco ci mancava), feci la mia conoscenza con l'Aikido, e con la persona che per molti anni per me ha continuato ad impersonarlo ed incarnarlo, il maestro Tada. Il gruppo sportivo di cui facevo parte aprì infatti una palestra di Aikido, che veniva vantata come la prima palestra europea, dall'immodesto nome di Ueshiba Morihei Dojo. I miei contatti iniziarono con la richiesta di preparare un volantino di propaganda appunto per la palestra; dovetti innanzitutto farmi spiegare cos'era l'Aikido, e venni lì per lì sottoposto ad una robusta dimostrazione a base di nikkyo: era infatti quello l'approccio che si usava a quei tempi per rispondere ai malcapitati che avessero chiesto informazioni: «Prendimi la mano», e giù un gran bel (si fa per dire, erano tempi pionieristici...) nikkyo. Con le idee ancora più confuse di prima mi diedi da fare sul tema, e tirai fuori dopo un poco un locale che,  strano a dirsi, incontrò il favore di molti, anche se mi venne riferito che il maestro Tada vedendolo si era messo a ridere di cuore... Successivi incontri ravvicinati , li ebbi alla palestra Monopoli in Trastevere, dove potei vedere degli scalmanati con strani vestiti che se le davano di santa ragione su una materassina rotonda, di quelle usate per la lotta libera. Non avevo ancora fatto conoscenza col maestro Tada, che mi immaginavo, da come mi veniva descritto, come un essere sovrannaturale, alto due o tre metri e capace di uccidere con uno sguardo. Qualche tempo dopo venni incaricato di badare per un giorno alla settimana alla suddetta palestra, e finalmente lo vidi! Non posso dire di essere rimasto deluso, perché indubbiamente il maestro Tada aveva di che colpire la fantasia di chiunque, figuriamoci la mia, però indubbiamente mi aspettavo che perlomeno andasse in giro vestito da samurai, con due spade alla cinta, alla continua ricerca di duelli. Chi poi, sebbene minaccioso come aspetto fisico, mi deluse completamente, fu un giovanottone giapponese che trovammo un giorno seduto sul marciapiede fuori della palestra, in attesa dell'apertura, e che evidentemente qualcosa a che fare con la palestra e col maestro Tada ce lo doveva avere, sebbene lì per lì non ce lo potesse spiegare, non masticando neppure una parola di italiano. Questo individuo era di una bonaria irritante, sempre sorridente e disposto a cercare di scambiare una parola con qualcuno, sempre curioso in cerca di avventure: la volta seguente lo trovai, sempre seduto sul marciapiede, che aveva attaccato bottone con alcuni allievi che mangiavano cartocci di «lupini», e si faceva disinvoltamente spiegare come andavano mangiati quegli affari; Che figura!, pensavo io, questo non sarà mai un vero samurai .
    Sul maestro Tada sono girate tante di quelle storie, messe in giro anche da omoni di una certa età; io a qua tempi ho creduto indistintamente a tutte, adesso però qualche dubbio in proposito lo coltivo...
    Una volta il maestro spiegò che gli avrebbe fatto comodo avere un jo, descrivendo più o meno come doveva essere fatto: in men che non si dicaa gli venne presentato un qualcosa di simile alla clava di Ercole, che venne, al solito, accettato senza fare commenti, anzi con mille ringraziamenti Dopo qualche prova, il maestro si avvicinò ad una delle colonne che ineggiavano minacciose in mezzo circa 20 metri quadri di tatami, e facendo leva sulla colonna, iniziò bastone strane manovre, che a
    me sembravano avere lo scopo di raddrizzare l'infelice pezzo di legno, che in effetti molto dritto non era. Partì subito una delegazione di allievi, per chiedere rispettosamente al maestro che stava facendo: dopo un po' il portavoce tornò indietro, riferendo con aria da cospiratore 'Lo sta accorciando, perché è troppo lungo”. Naturalmente il giorno dopo la storia aveva fatto tre volte il giro di Roma... Altre storielle? Il maestro Tada per allenarsi tirava fogli di carta per aria e li tagliava in due con la spada: Embeh?, rispondeva qualcuno. Cretino, »lo si rimbeccava, in due nel senso dello spessore, in modo da fare due fogli
    Un bel giorno, mentre pulivamo la palestra di domenica, mi venne detto di indossare un keikogi e salire sul tatami (i keikogi erano depositati in palestra, alla giapponese). Mentre mi affrettavo, mi dissero di stare attento a non sbagliarmi: a sentir loro, un allievo si era messo per sbaglio una volta il keikogi del maestro Tada, che stava fuori Roma. Al ritorno il maestro si sarebbe immediatamente accorto del misfatto, non solo, ma sarebbe andato in giro per il dojo annusando come un cane da tartufi, finché rintracciato dall'odore il malcapitato allievo, gli avrebbe dato una risciacquata di primo ordine. Fu quella la prima e unica volta che salii sul tatami: sarebbero passati altri 8 anni prima che mi decidessi ad iscrivermi ad un corso di Aikido. Il dojo era abbastanza affollato; a rivedere le vecchie foto fanno tenerezza quelle facce marziali (si fa per dire), quelle pose statuarie racchiuse in angusti keikogi.  Tutti gli allievi che sono passati per il Ueshiba Morihei Dojo sono prima o poi tornati all'ovile, tutti li ho incontrati qualche anno dopo al Dojo Centrale, tutti hanno chiesto del maestro Tada, e tutti hanno detto di voler ricominciare la pratica: qualcuno l'ha addirittura fatto! Erano tutti allievi ben volenterosi, ed il maestro Tada era soddisfatto: usava a quei tempi praticamente il sistema giapponese: ad un malcapitato venuto la prima volta in palestra venne sommariamente spiegato irimi tenkan suwariwaza; dopo di che il maestro seguitò a fare lezione, lasciando il tapino che piroettava volenterosamente: dopo un quarto d'ora il poveretto fece cenno al maestro se poteva smettere, ormai paonazzo: il maestro assunse un'aria quanto mai stupita, e gli fece cenno di seguitare; dopo un'altra mezz'ora il nostro eroe si diresse verso il maestro Tada, ed in silenzio si tirò su i pantaloni mostrando le ginocchia ormai sanguinanti. Lo sguardo rivoltogli in cambio dal maestro aveva l'inequivocabile significato di E allora?; non gli rimase che tornarsene mogio mogio ai suoi tenkan, fino alla fine dell'ora; ancora adesso, quando parla del maestro Tada, gli brillano gli occhi. Anche il sistema dei gradi era alla giapponese: con nomine sul campo da parte del maestro, che era di manica abbastanza larga: in 5 o 6 mesi quasi tutti erano terzo kyu; le tecniche erano rudimentali, più che altro per una certa faciloneria da parte degli allievi e per la loro desuetudine ai movimenti dell'Aikido, perché le lezioni del maestro Tada erano pignolissime: mi affascinava particolarmente il modo in cui spiegava le cadute, facendole vedere praticamente al rallentatore, e sembrava veramente che si fermasse a suo piacimento in aria.
    Dopo quasi un anno, il mio gruppo sportivo si sciolse, e così finì la prima palestra europea di Aikido. Credevo che la storia fosse finita lì, ma dopo qualche mese, nella primavera del '67, il buon Serpieri fece sapere a me e ad alcuni miei amici che il maestro Tada aveva trovato un nuovo Dojo in via Eleniana, e cercava qualcuno che gli desse una mano per metterlo a posto... (A quei tempi il keikogi andava di moda bello attillatino, che facesse una bella figura indosso (come si muovessero non lo so), e non si usava molto lavarlo, con la scusa che i samurai non lo facevano: rimaneva perciò a lungo dello stesso colore giallastro che ha appena acquistato.) A quanti fossero stati colti da un sospetto, senza poterne avere la certezza, confermo che = trattava del maestro Ikeda.
  •